Mostra Keep On Movin’. Storie dalla Collezione Morra Greco - Napoli
A cura di Manuela Vaccarone
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Napoli
Nel 1957, gli scienziati cinesi Lee e Yang, insieme alla scienziata Wu, scoprirono che lo spazio è simmetrico stabilendo che è possibile in un punto qualsiasi del cosmo definire il nord e il sud, la destra e la sinistra.
Anche se gli antichi navigatori avevano capito come orientarsi guardando verso il cielo e leggendo il movimento degli astri, la scoperta valsa il premio Nobel rappresenta una conquista epocale: ogni cosa posizionata nello spazio è attribuibile a un punto e una direzione ben precisi, in ogni caso.
Mentre la scoperta di Lee, Yang e Wu stabilisce una volta per tutte l’univocità dello spazio, è impossibile stabilire un punto di vista esauriente per leggere la complessità polifonica della storia.
Attraverso una selezione di opere dalla Collezione Morra Greco, la mostra descrive come artisti di generazioni e nazionalità differenti tra gli anni Settanta e Duemila abbiano posto incessanti interrogativi verso il presente facendo emergere il lato in ombra dei sistemi, narrazioni e ideologie che regolano la nostra esperienza di realtà e storia.
Le opere in mostra interrogano sé stesse come opere d’arte e questionano ora antagonisticamente, ora ironicamente, la società, le istituzioni, il linguaggio, la cultura materiale e il rapporto degli esseri umani con la natura.
Attraverso la fotografia, immagine in movimento e pittura, accanto a scultura, installazione, arredamento, e architettura raccontano uno spaccato storico e culturale in cui il mondo è radicalmente cambiato preparandosi ad essere quello di cui facciamo esperienza oggi.
Il lavoro di Július Koller (1939 – 2007, Slovacchia), realizzato nel 1970, indica la frattura storica e culturale tra ovest ed est durante la Guerra Fredda, spingendo lo sguardo al di là della cortina e dimostrando la sussistenza di paradigmi all’interno della storia dell’arte come quello di “arte concettuale”.
L’installazione di Sam Durant (1961, Stati Uniti) rovescia i costrutti narrativi della storia Americana attraverso un esercizio di revisionismo, mentre le formazioni architettoniche di Manfred Pernice (1963, Germania), composte da moduli estrapolati dal contesto urbano, commerciale o domestico, analizzano le funzioni sociali di questi elementi nell’esperienza quotidiana avanzando un ragionamento sul senso del display.
Similmente, il lavoro di Renato Leotta (1982, Italia) indaga il rapporto tra natura, arte, museo e display.
La ricerca di Giulia Piscitelli (1965, Italia) e Petra Feriancovà (1977, Slovacchia) indaga l’archivio, l’immagine e la cultura materiale ricostruendo i legami, le associazioni, e l’investimento emotivo simbolico assegnato al mondo degli oggetti.
Mentre l’opera di Jonathan Monk (1969, Regno Unito) monumentalizza la narrazione autobiografica dell’artista mettendo in crisi il funzionamento dell’opera d’arte.
Appropriazione, riproduzione e citazione sono pratiche continuamente messe in atto. Guardando ai moduli della scultura minimalista, l’opera di Katja Strunz (1970, Germania) porta in luce il riferimento endogeno alla storia dell’arte sviluppando un senso temporale che pone in continuità il senso del trauma derivato dalla consapevolezza del passato con l’esperienza del presente.
Così il lavoro di Andreas Slominski (1959, Germania) sposta al di fuori dell’arte l’oggetto artistico fino alla mimesi totale (e funzionale) con la realtà.
Un bersaglio centrale è il sistema dell’arte, la crescente professionalizzazione della figura dell’artista, e gli interessi economici o i codici di condotta che ne convenzionano il linguaggio. Il lavoro di Lorenzo Scotto di Luzio (1972, Italia), o quello di Cezary Bodzianowski (1968, Polonia), indagano in maniera differente questo spazio di azione e transazione tra l’artista e il mondo che lo circonda con gradi diversi di amarezza e ironia.
Mentre il confine tra categorie artistiche, esperienza dello spettatore, storytelling, idea e scultura, è messo alla prova in modo differente nelle sculture di Piero Golia (1974, Italia) ed Eva Rothschild (1971, Irlanda).
Il tedesco John Bock (1965, Germania) indaga il lato oscuro della società neoliberale, l’impossibilità di penetrare la realtà e il mondo materiale, operando una revisione delle metodologie didattiche accademiche. Similmente, il lavoro di Keren Cytter (1977, Israele) scardina il linguaggio del cinema moderno mescolando realtà e finzione.
Le opere di Cathy Wilkes (1966, Regno Unito) e Kai Althoff (1966, Germania) analizzano invece le politiche di rappresentazione e i significati attribuiti alle immagini, riflettendo sull’esperienza personale e il legame tra individuo e società. L’installazione di Eric Wesley (1973, Stati Uniti) è una chiosa dissacrante dritta al cuore di tutte le ideologie e dei meccanismi pericolosamente autocelebrativi che le caratterizzano.
Accanto a una disamina critica della realtà, gli artisti in mostra condividono linguaggi spesso basati su un approccio fai da te (DIY), una forte tensione concettuale e un’attitudine alla sperimentazione transdisciplinare. I lavori in mostra rifuggono qualsiasi senso di immutabilità o grandiosità tradizionalmente attribuito all’arte.
Così facendo, commentano il modernismo, il mito del progresso, le ideologie e le grandi narrazioni che hanno caratterizzato il secolo precedente, invitando piuttosto a immaginare delle storie che coesistano nello spazio e nel tempo prendendo il posto delle grandi narrazioni.
Lo spettatore è invitato a tracciare e percorrere il proprio itinerario all’interno del museo scegliendo in libertà la propria traiettoria di senso. Le opere al primo piano ingaggiano un dialogo diretto con gli spazi fortemente connotati del primo piano nobile di Palazzo Caracciolo di Avellino investigando secondo strategie differenti il ruolo e il rapporto tra arte, museo e natura, cultura materiale, e relativi nessi sociali e politici.
Il secondo, il terzo piano e il basement investigano più da vicino il linguaggio, gli slittamenti di senso e le deviazioni narrative all’interno e all’esterno del mondo dell’arte e dell’individuo.
Anche se gli antichi navigatori avevano capito come orientarsi guardando verso il cielo e leggendo il movimento degli astri, la scoperta valsa il premio Nobel rappresenta una conquista epocale: ogni cosa posizionata nello spazio è attribuibile a un punto e una direzione ben precisi, in ogni caso.
Mentre la scoperta di Lee, Yang e Wu stabilisce una volta per tutte l’univocità dello spazio, è impossibile stabilire un punto di vista esauriente per leggere la complessità polifonica della storia.
Attraverso una selezione di opere dalla Collezione Morra Greco, la mostra descrive come artisti di generazioni e nazionalità differenti tra gli anni Settanta e Duemila abbiano posto incessanti interrogativi verso il presente facendo emergere il lato in ombra dei sistemi, narrazioni e ideologie che regolano la nostra esperienza di realtà e storia.
Le opere in mostra interrogano sé stesse come opere d’arte e questionano ora antagonisticamente, ora ironicamente, la società, le istituzioni, il linguaggio, la cultura materiale e il rapporto degli esseri umani con la natura.
Attraverso la fotografia, immagine in movimento e pittura, accanto a scultura, installazione, arredamento, e architettura raccontano uno spaccato storico e culturale in cui il mondo è radicalmente cambiato preparandosi ad essere quello di cui facciamo esperienza oggi.
Il lavoro di Július Koller (1939 – 2007, Slovacchia), realizzato nel 1970, indica la frattura storica e culturale tra ovest ed est durante la Guerra Fredda, spingendo lo sguardo al di là della cortina e dimostrando la sussistenza di paradigmi all’interno della storia dell’arte come quello di “arte concettuale”.
L’installazione di Sam Durant (1961, Stati Uniti) rovescia i costrutti narrativi della storia Americana attraverso un esercizio di revisionismo, mentre le formazioni architettoniche di Manfred Pernice (1963, Germania), composte da moduli estrapolati dal contesto urbano, commerciale o domestico, analizzano le funzioni sociali di questi elementi nell’esperienza quotidiana avanzando un ragionamento sul senso del display.
Similmente, il lavoro di Renato Leotta (1982, Italia) indaga il rapporto tra natura, arte, museo e display.
La ricerca di Giulia Piscitelli (1965, Italia) e Petra Feriancovà (1977, Slovacchia) indaga l’archivio, l’immagine e la cultura materiale ricostruendo i legami, le associazioni, e l’investimento emotivo simbolico assegnato al mondo degli oggetti.
Mentre l’opera di Jonathan Monk (1969, Regno Unito) monumentalizza la narrazione autobiografica dell’artista mettendo in crisi il funzionamento dell’opera d’arte.
Appropriazione, riproduzione e citazione sono pratiche continuamente messe in atto. Guardando ai moduli della scultura minimalista, l’opera di Katja Strunz (1970, Germania) porta in luce il riferimento endogeno alla storia dell’arte sviluppando un senso temporale che pone in continuità il senso del trauma derivato dalla consapevolezza del passato con l’esperienza del presente.
Così il lavoro di Andreas Slominski (1959, Germania) sposta al di fuori dell’arte l’oggetto artistico fino alla mimesi totale (e funzionale) con la realtà.
Un bersaglio centrale è il sistema dell’arte, la crescente professionalizzazione della figura dell’artista, e gli interessi economici o i codici di condotta che ne convenzionano il linguaggio. Il lavoro di Lorenzo Scotto di Luzio (1972, Italia), o quello di Cezary Bodzianowski (1968, Polonia), indagano in maniera differente questo spazio di azione e transazione tra l’artista e il mondo che lo circonda con gradi diversi di amarezza e ironia.
Mentre il confine tra categorie artistiche, esperienza dello spettatore, storytelling, idea e scultura, è messo alla prova in modo differente nelle sculture di Piero Golia (1974, Italia) ed Eva Rothschild (1971, Irlanda).
Il tedesco John Bock (1965, Germania) indaga il lato oscuro della società neoliberale, l’impossibilità di penetrare la realtà e il mondo materiale, operando una revisione delle metodologie didattiche accademiche. Similmente, il lavoro di Keren Cytter (1977, Israele) scardina il linguaggio del cinema moderno mescolando realtà e finzione.
Le opere di Cathy Wilkes (1966, Regno Unito) e Kai Althoff (1966, Germania) analizzano invece le politiche di rappresentazione e i significati attribuiti alle immagini, riflettendo sull’esperienza personale e il legame tra individuo e società. L’installazione di Eric Wesley (1973, Stati Uniti) è una chiosa dissacrante dritta al cuore di tutte le ideologie e dei meccanismi pericolosamente autocelebrativi che le caratterizzano.
Accanto a una disamina critica della realtà, gli artisti in mostra condividono linguaggi spesso basati su un approccio fai da te (DIY), una forte tensione concettuale e un’attitudine alla sperimentazione transdisciplinare. I lavori in mostra rifuggono qualsiasi senso di immutabilità o grandiosità tradizionalmente attribuito all’arte.
Così facendo, commentano il modernismo, il mito del progresso, le ideologie e le grandi narrazioni che hanno caratterizzato il secolo precedente, invitando piuttosto a immaginare delle storie che coesistano nello spazio e nel tempo prendendo il posto delle grandi narrazioni.
Lo spettatore è invitato a tracciare e percorrere il proprio itinerario all’interno del museo scegliendo in libertà la propria traiettoria di senso. Le opere al primo piano ingaggiano un dialogo diretto con gli spazi fortemente connotati del primo piano nobile di Palazzo Caracciolo di Avellino investigando secondo strategie differenti il ruolo e il rapporto tra arte, museo e natura, cultura materiale, e relativi nessi sociali e politici.
Il secondo, il terzo piano e il basement investigano più da vicino il linguaggio, gli slittamenti di senso e le deviazioni narrative all’interno e all’esterno del mondo dell’arte e dell’individuo.
Regione: Campania
Luogo: Palazzo Caracciolo di Avellino, largo Proprio di Avellino 17
Telefono: 081/19349740
Orari di apertura: 10-18 da giovedì a sabato
Costo: Ingresso libero
Dove acquistare: 0 - ingresso libero
Sito web: www.fondazionemorragreco.com
Organizzatore: Fondazione Morra Greco